ABBIAMO OSPITI/GEOPOLITICA – La Turchia di Erdogan – 2

Articolo di Norberto Cappello, Autore Ospite de La Lampadina

Nel precedente numero abbiamo detto di come, dopo la propria affermazione elettorale del 2002, Recep Tayyip Erdogan abbia gradualmente modificato l’assetto dato da Ataturk alla Turchia quasi un secolo fa, promuovendo, all’interno, un’accentuazione dell’identità turca (“populismo identitario”) e, in tale contesto, di una maggiore visibilità dei simboli dell’Islam (come il velo per le donne o il recente, internazionalmente controverso, ritorno a moschea del complesso, finora museo, della ex basilica bizantina di Santa Sofia). Più vistose le novità in politica estera, caratterizzate da un allentamento dello stretto rapporto con gli USA, la NATO e l’Occidente in senso lato, a fronte di una maggiore attenzione per aree del mondo islamico in una chiave che alcuni osservatori definiscono “neo-ottomana”. In effetti con Erdogan la politica estera turca allarga i propri orizzonti: analogamente – ormai – a quasi tutti i paesi, il Presidente non solo è diventato il principale punto di riferimento per la politica estera, lasciando al Ministro degli Esteri compiti sostanzialmente esecutivi, ma le aree di interesse geografico e di azione politica di Ankara si sono ampliate notevolmente rispetto al passato.
È in tale contesto che – ad esempio – ha suscitato una certa sorpresa la notizia che la recente liberazione della cooperante italiana Silvia Romano sia stata resa possibile attraverso l’intermediazione della Turchia, grazie al ruolo che Ankara svolge da tempo nel Corno d’Africa ed in particolare in Somalia ed in Sudan.
Dopo una visita nel 2011, da allora definita storica, di Erdogan a Mogadiscio nel corso di una terribile pestilenza, Ankara si è fatta promotrice di una stretta cooperazione in tutti i campi (compreso l’addestramento di forze dell’ordine e militari), anche attraverso l’adozione di modalità innovative rispetto alla prassi seguita da paesi più sviluppati nei confronti di paesi emergenti, afflitti da sottosviluppo, guerre civili, corruzione. Un importante strumento di tale collaborazione, che vuole caratterizzarsi soprattutto per l’attenzione al contenuto “umanitario” ed all’Islam, è l’Agenzia di Cooperazione e Coordinamento Turca (TIKA), molto vicina al partito del Presidente (AKP). La Somalia è così diventata una sorta di trampolino per la Turchia interessata a svolgere un ruolo in Africa, Dal 2011, in breve tempo Ankara ha aperto ambasciate in tutta l’Africa, si sono moltiplicate le collaborazioni nel campo della sicurezza e della difesa, le linee aeree turche hanno moltiplicato i propri collegamenti africani, imprese turche hanno cominciato ad espandersi nei settori delle costruzioni, nella gestione di porti ed aeroporti, nel commercio e l’esportazione di prodotti turchi.
Tale “espansionismo” turco in Africa, al di là di considerazioni economico-commerciali, viene percepito negativamente, come concorrenziale, da paesi come l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi, l’Egitto ed il Bahrein per ragioni anche politiche. Dopo la crisi del Golfo del 2017 nel mondo mussulmano sono emersi in modo più evidente due campi, ideologicamente contrapposti, sul ruolo, o meno, di un Islam “politico”, sulla vicinanza, o meno, all’organizzazione dei Fratelli Mussulmani, favorita questa da Turchia e Qatar, ma ferocemente combattuta da Egitto e Paesi del Golfo. In tale quadro, ad esempio, nella crisi siriana si è assistito ad una collaborazione tra Ankara e Teheran, mentre l’Iran è considerato un vero nemico da Riad e dagli Emirati. Due circostanze possono essere significative: nel 2016 Erdogan sospettò che Riad e gli Emirati avessero sostenuto finanziariamente il tentato colpo di stato contro di lui. Probabilmente ciò indusse Ankara ad andare in soccorso del Qatar al momento del blocco da parte di Riad ed Emirati, cosa che permise alla Turchia di ottenere una base militare nei pressi di Doha (per la prima volta dalla fine dell’Impero Ottomano).
Inoltre, in questi ultimi anni, Ankara ha tentato di stringere relazioni speciali con il Sudan (riuscendoci in un primo tempo, ma trovandosi in una situazione di stallo dopo la recente deposizione dell’ex Presidente Bashir), nonché con l’Etiopia. Qui, però, la “diplomazia delle scuole e delle moschee” di Ankara non ha incontrato molto favore, nonostante investimenti commerciali superiori a quelli in Somalia e Sudan: ciò a causa sia della concorrente influenza economica dei Paesi del Golfo, sia del carattere prevalentemente cristiano-ortodosso del paese. L’Eritrea, invece, rimane fermamente legata al campo avverso dell’Arabia Saudita ed Emirati.
Secondo alcuni osservatori questa più ampia azione “neo-ottomana” di Erdogan in politica estera, che sembra tanto preoccupare altri paesi islamici dell’area, riflette piuttosto motivazioni di politica interna e incontra comunque limitazioni di ordine economico, conseguenza di un recente, forte rallentamento dei tassi di sviluppo dell’economia turca. Ed è verosimilmente sul piano economico che dovrà confrontarsi l’ambizione di Erdogan di promuovere la Turchia come potenza umanitaria, dalla Somalia alla Siria, rifugio per popolazioni in fuga dai propri paesi devastati dalla guerra, difensore di comunità mussulmane come quella palestinese, e, infine, attore importante nello sviluppo delle fonti energetiche del Mediterraneo.

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