LA LAMPADINA/RACCONTI – Venezia

da “Allegretto con spirito.
Gin&tonic e Martini in viaggio tra letture e memorie”
di Ida Tonini

Venezia

Mi sono riletta tutto Hemingway. Beh, tutto ha inizio con lui e con l’Harry’s Bar di Venezia.
Se conoscevo Carpaccio –non il piatto universalmente noto creato da Giuseppe Cipriani, ma Vittore Carpaccio autore delle storie di San Girolamo, San Trifone e San Giorgio, protettori della piccola e accogliente Scuola di San Giorgio degli Schiavoni, e delle storie di Sant’Orsola, all’Accademia — è solo perché sono vissuta a Venezia e quelle storie erano incantevoli per me bambina come credo lo siano ora le graphic novel di fantascienza. Avere una certa dimestichezza con la storia dell’arte, a Venezia, è troppo facile. Oggi è difficile capire quanta bellezza si palesasse ogni giorno agli occhi dei bambini lungo il tragitto tortuoso verso la scuola: campi, campielli, calli, rii, ponti… Mezz’ora da casa; a piedi, da soli, fin dalla più tenera età. Le vetrine traboccanti di broccati serici, di vetri in cui l’oro e l’argento baluginavano a tratti; le facciate dei palazzi, che, riflessi nell’acqua, creavano astrattismi, rivelati poi da un Tancredi o da un Pollock; le nebbie che tutto sfumavano, preconizzando i Turner che avrebbero ammirato anni dopo; i barconi ricolmi di frutta e verdura, una frenesia di colori combinati come nelle più dettagliate pitture fiamminghe, i profumi di spezie che si sprigionavano dalle drogherie, mai più percepiti,  se non in quell’ultima bottega rimasta aperta fino al secondo millennio sulle fondamenta di Borgo. Persono in chiesa, alla “messa del fanciullo”, si era distratti dalle travolgenti Ultime Cene di Tintoretto o dalla pacata soavità di una pala del Bellini, dalla preziosità aurea di Vronese o da quella vaporosa di Tiepolo; per non dire di Tiziano, all’Assunta del quale si tributava un omaggio seriale, in visita guidata per parenti e affini in viaggio a Venezia. I sensi, tutti i sensi erano continuamente solleticati, e non c’era bisogno di hashish e marijuana per stimolarli ulteriormente.

cincin

Sono entrata per la prima volta all’Harry’s Bar, tempio dei cocktail e ristorante raffinato, per festeggiare i miei, primi diciott’anni. Una data, quindi, memorabile: 28 novembre 1960. Mi sono seduta con un paio di amiche al tavolo in fondo sotto le finestre che affacciano sul Bacino di san Marco, all’angolo destro, il preferito da tutti. Il locale era vuoto, erano le cinque della sera e ho bevuto un tè. Un filo di trasgressione connotava quel semplice gesto; avevo osato entrare in un locale proibito alle putee de famegia, che ai quei tempi nulla avrebbero dovuto sapere degli invertiti che lì s’incontravano. Non so come, mio padre lo venne a sapere. «Ida, questa sera ti aspetto nello studio». La voce era severa e non ammetteva repliche. «Ho saputo che oggi pomeriggio ti hanno vista all’Harry’s Bar» mi disse dal suo posto di comando, una bellissima scrivania con piano di cristallo. Il tono era quello di un padre severamente seccato e determinato a trovare una punizione significativa. Mia sorella Lucia per molto meno, era stata esiliata nel pieno delle vacanze estive, nella casa dei nonni, nobile e bella ma pur sempre al centro di un paese di seicento anime e lontana una trentina di chilometri dal mare, dalla compagnia degli amici e del suo amato bene, Valerio.

Forse mi avrebbe proibito di andare all’appuntamento domenicale con il Cineforum del Giorgione. Oppure mi avrebbe impegnato con ripetizioni gratis alla figlia del giardiniere o al nipote del portiere; un metodo ingegnoso per farmi raggranellare dell’argent de poche per le vacanze-studio in Spagna. Punizioni temutissime. «Bene, Ida» disse con una voce dolce e sorniona, come il suo sguardo «bene, Ida, hai fatto proprio bene, l’Harry’s Bar è l’unico locale di Venezia da frequentare». Ovunque sia andata nel mondo, la parola Harry’s Bar mi ha aperto le porte dell’accoglienza.

cincin

Subscribe
Notificami

0 Commenti
Inline Feedbacks
View all comments