LIBRI/GLI AMICI CONSIGLIANO – Una storia di amore e tenebra di Amos Oz

Giorni fa, presa da un robusto attacco di disperazione nei confronti della genetica dei potenti della Terra ed al loro atteggiamento nei confronti delle guerre in corso, in particolare alla disumana condizione di vita a Gaza, ho pensato di riprendere in mano questo capolavoro di Amos Oz, che avevo letto anni fa e dal quale avevo compreso molte sfumature in merito al territorio palestinese tra il 1920 ed il 1948, anno in cui la risoluzione Onu determinò lo Stato di Israele. Un libro equilibrato, scritto da uno scrittore che da sempre sosteneva la creazione di due Stati perché tutti e due i popoli, arabi ed ebrei avevano le loro buone ragioni per volere quella terra.
Amos Oz ci ha lasciati nel 2018 ed è stato uno scrittore e saggista israeliano; è stato un giornalista e docente di letteratura all’Università Ben Gurion nel Negev a Be’er Sheva. Ed è proprio nel Negev, dove vivrà tutta la vita, in questo particolare piccolo mondo nel deserto che si ambienteranno molti dei suoi sempre poetici racconti. Sin dal 1967 è stato autorevole sostenitore della soluzione di due Stati per i due popoli che hanno ambedue diritto ad essere lì. Sosteneva anche che Israele doveva ritirarsi entro i confini antecedenti al 1967. Ha ricevuto innumerevoli premi letterari ed è stato tra i fondatori di Peace now il principale movimento pacifista israeliano. Queste le sue parole. «Tra noi ed i Palestinesi c’è da più di cent’anni una ferita aperta, anzi una ferita infetta; non si cura una ferita con un bastone; non è ammissibile continuare ad infierire in questo modo su una ferita pensando che possa smettere di sanguinare». Purtroppo la ferita è diventata una macelleria e le immagini che vediamo sono sempre le stesse che vediamo in tutte le guerre. Altro non dico.
Torniamo al libro. Una storia di amore e di tenebra è un affresco indimenticabile. È la storia del distacco e della nostalgia di una intera generazione di profughi, sradicati da un’Europa che amavano e di cui i figli si identificheranno con l’uomo nuovo “israeliano”. Amos di cui il cognome è Klausner, lo cambierà per Oz, che significa coraggio. Sono pagine in cui incontriamo lo scrittore e l’epopea di un paese che nasce. Amos Oz ci conduce in una Gerusalemme, tra gli anni 1920 – 1950, poverissima, ma estremamente colta e poliglotta. Siamo al crocevia della storia ebraica. La seconda guerra mondiale è finita da poco, il mandato britannico è agli sgoccioli e il 14 maggio 1948 viene proclamata la nascita dello Stato d’Israele e si apre immediatamente l’infinita stagione delle guerre. I Klausner sono emigrati in Palestina negli anni ’20. Vivono una vita povera in un appartamento minuscolo con il soffitto bassissimo. Il padre è uno studioso di letteratura ebraica vicino ad ambienti di destra e contrario alle simpatie laburiste del figlio Amos, la madre Fania ha studiato storia e filosofia a Praga. Sembra che Shimon Peres avrebbe visto bene il giovane Amos Oz come suo erede. Nella scala dei valori dei genitori del piccolo Amos tutto ciò che era occidentale stava culturalmente più in alto. Tolstoj e Dostoievsky andavano bene, tuttavia malgrado Hitler, continuavano a considerare la Germania al di sopra della Russia e della Polonia da cui provenivano. Più in alto c’era la Francia e poi in cima alla classifica l’Inghilterra. Era l’Europa la terra promessa di tanti ebrei europei per nascita eppure rigettati. Gerusalemme tra gli anni ’20 e ’40, quella sotto il mandato britannico, era una città affascinante e popolata da uomini di cultura di rilievo: troveremo Brenner, con il mito dei “giusti nascosti”, Agnon premio Nobel per la letteratura nel 1966 che credeva in Dio e Lo temeva, ma non Lo amava.
Nel quartiere dove i Klausner abitano, Kerem Abraham, vivono insegnanti, bibliotecari rilegatori. Amos cresce in una famiglia silenziosa, dove sua madre, Fania, che lui adora, è infelice, sopraffatta da una vita diversa da quella che voleva. Fania scivolerà nella depressione e si ucciderà. Amos soffrirà moltissimo e decide di abbandonare il mondo di Kerem Abraham e tutti i suoi parenti ed entra a far parte di un kibbutz. Entra nella dimensione dei “pionieri,” un ebreo lontano anni luce dall’ebreo diasporico.
Il mondo dell’erudizione non fa parte di questa dimensione. Oz vivrà nel kibbutz, per circa 30 anni, vi conoscerà sua moglie e lì nasceranno le sue figlie.
Questo è un vero romanzo autobiografico. La narrazione procede con sbalzi temporali con contrasti forti: da una parte Gerusalemme, centro politico e religioso di Israele e dall’altro Tel Aviv, cuore pulsante di uno Stato sempre più proiettato in avanti e verso occidente.
Il libro tratta temi universali: integrazione dei popoli, le migrazioni, problema dello sradicamento che un tempo fu degli ebrei ed oggi gli ebrei impongono agli arabi palestinesi, sullo sfondo l’utopia egualitaria e anticapitalistica (il kibbutz), gli attacchi terroristici, l’erudizione del genitori. Ma soprattutto il libro ci svela la possibilità di essere soggettivi dentro tragedie storiche che si sono consumate e la possibilità di leggere dentro questi avvenimenti e trovare un compromesso. Il convincimento di Amos Oz è che tutta la vita è un compromesso ed il compromesso non è mai felice, è doloroso ma inevitabile per sopravvivere. «Il compromesso è vita», questo il suo pensiero Un libro magico colmo di umorismo e tristezza. Una saga familiare su più piani temporali e vicende storiche e descrive molto bene la società e il clima che si respirava immediatamente prima della nascita dello Stato di Israele. Colpisce la complessità e la compattezza della cultura ebraico israeliana che rivela i segreti delle sue sfumature.
Grazie Amos Oz, per le risate e le lacrime. Alla fine della lettura mi è venuta in aiuto una frase di Rosa Luxembourg alla quale ho deciso di aggrapparmi: «La Storia sa sempre dove andare anche quando pare si sia infilata in un vicolo cieco senza speranza».
Buona lettura
P.S. Se non sopportate i continui riferimenti alla storia, non leggetelo.

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Barbara Corrao Lack
23 Settembre 2025 23:22

Mi è piaciuto molto questo articolo e lo trovo molto opportuno in questo periodo in cui siamo disorientati e angosciati di fronte a tragedie che ci sembravano impensabili dopo gli orrori di due guerre mondiali e 80 anni di pace e sviluppo che sembravano avere chiuso il conto con l’orrore. Leggerò il libro di Amos Oz, farà da contraltare ad un altro libro che consiglio a chi non l’avesse letto: “Ogni mattina a Jenin” di Susan Abulhawa. Racconta la storia vista dai palestinesi, terrorizzati dall’arrivo dei “sionisti” nel ‘48, l’abbandono delle loro case, della terra in cui erano vissuti coltivando gli olivi, e la lunga striscia di sangue che ne è scaturita e che tormenta ancora i nostri giorni.
Leggendo l’articolo mi è in tornato in mente Marx e il fascino esercitato sull’esperienza dei Kibbutz ma ho apprezzato anche il richiamo a Rosa Luxembourg, anche lei vittima di nazionalismi e paladina di un “comunismo” che non rinunciava alle libertà democratiche.