La Lampadina Racconti: La colonia russa. Il mito di Gorkij

“La colonia russa. Il mito di Gorkij”
di Marcella Leone de Andreis
tratto dal libro: 
Capri 1939. L’isola in bianco e nero”

Edizioni La Conchiglia

Un gruppo etnico che sull’Isola non mancava mai era quello Russo. Come in un gioco delle parti, i “rossi” rivoluzionari fuggiti dal regime zarista erano ora stati sostituiti dai “bianchi”, fuggiti dalla Rivoluzione. Il ricordo di Maksim Gorkij era ancora vivissimo in tutti.

Quando giunse per la prima volta a Capri nel 1906, Aleksej Maksimo-vic Peskov, a tutti noto come Gorkij, aveva 38 anni, era tisico e minato dall’alcool. Esule dalla Russia zarista, lo scrittore aveva cercato di stabilirsi negli Stati Uniti, ma ne era stato espulso immediatamente perché viaggiava in evidente stato di adulterio con la sua amante Marjia Féodorovna Gelabuzkaja, una famosa cantante lirica nota con il nome d’arte di Andrejeva. Ricco dei proventi dei diritti d’autore delle sue opere e molto generoso, lo scrittore aveva fondato a Capri per i suoi connazionali una scuola per aspiranti rivoluzionari con tanto di allievi e di professori. In quel periodo l’Isola era diventata un vero e proprio insediamento russo, con una biblioteca, una mensa, un’infermeria, un centro assistenziale.
Era capitato così che sulla piccola isola mediterranea si preparasse la rivoluzione più grande della storia e che su quelle rocce sfilassero coloro che da lì a pochi anni avrebbero preso il potere in Russia con posizioni di primo piano nel Comitato Centrale del Soviet. Lo stesso Vladimir Iljic Ulianov, detto Lenin, all’epoca noto più alle Polizie politiche che alle masse popolari, era passato un paio di volte da quelle parti, aveva giocato a scacchi allo Zum Kater e non gli erano dispiaciute le canzoni napoletane. Mentre Gorkij curava con il sole la sua tubercolosi e scriveva le pagine più toccanti del suo capolavoro, la madre, i suoi accoliti, aumentati col tempo fino a diventare un migliaio, alternavano il rude studio della rivoluzione proletaria a lunghe partite a scacchi e a dolci bagni nel mare di Marina Piccola. Non era raro che, trascinati dalla nostalgia, tirassero fuori la balalaika per cantare sullo Scoglio delle Sirene uno struggente Volga Volga.
Gorkij era solito girare per l’Isola con un pappagallo sulla spalla. Abitò in tre case: la prima fu Villa Blaesus, poi Albergo Villa Krupp, che aveva un giardino e un belvedere a picco sulle acque smeraldo dei Faraglioni e da dove si spaziava «con lo sguardo e il cuore in un vasto orizzonte di sole e di mare senza fine, come senza fine è la steppa russa». Gorkij fece allargare la piccola finestra che guardava a mezzogiorno in modo che dalla sua scrivania (una vera leggenda per Capri perché fu poi acquistata da Edwin Cerio che la sistemò nel 1918 a La Solitaria per il suo inquilino Compton Mackenzie) potesse vedere lontano il mare e il cielo. La seconda casa fu Villa Behring, dove rimase non molto tempo per poi andarsene di nuovo a sud, davanti al cielo e al mare di Mulo, a Villa Pierina, al centro di un grande giardino. In tutte e tre c’era sempre posto per gli ospiti, amici e rivoluzionari di passaggio e la sua mensa era sempre aperta a tutti i connazionali.
Nella cultura russa, Capri era un mito. Persino il grande poeta Vladimir Majakovskij le aveva dedicato, nel 1916, alcuni versi trasgressivi: “… Ehi!/ Russia, / a quando / qualcosa di più nuovo? / Beato chi ha potuto almeno una volta, / almeno chiudendo gli occhi, / dimenticarvi tutti, / inutili come un raffreddore, / e sobri / come l’acqua minerale. / Tutti così noiosi, come / se al mondo non ci fosse Capri. / Ma Capri esiste. / Col suo alone di fiori / Tutta l’Isola è una donna in una cuffia rosa.”
Nei primi anni Venti la Rivoluzione russa era ormai un fatto compiuto. Gorkij se ne era tornato in patria da un pezzo e così pure i suoi amici, la maggior parte dei quali sarebbe poi finita processata e giustiziata perché non in linea con le direttive del partito.
Durante la sua vacanza caprese, Eva Kuhn Amendola — che aveva inizialmente accolto con entusiasmo la Rivoluzione russa di febbraio con la destituzione dello zar e l’affidamento della guida del Paese al liberale Kerenskij, divenendo poi una fiera oppositrice di quella d’ottobre allorché Lenin e i bolscevichi avevano preso il potere — aveva cominciato a frequentare la colonia di emigrati russi. Molti li conosceva bene, avendoli già incontrati a Roma e a Napoli.
Come Michail Seménov, giornalista, scrittore, esperto d’arte, amico di Pablo Picasso e Jean Cocteau, André Gide e Giovanni Papini, Marinetti e Depero, colto dalla notizia della Rivoluzione durante uno dei suoi viaggi in Europa e proprio mentre era a Capri, dove si recava frequentemente con la sua amante Valeria Theja. È a lui che si deve la presenza sull’Isola del grande coreografo Djagilev, fondatore della compagnia di danza Ballets e del compositore Igor Stravinskij. Seménov aveva deciso di non tornare nella Russia bolscevica e si trasferì di lì a poco a Positano dove avrebbe messo in piedi un redditizio commercio di pesce d’importazione e soprattutto dove avrebbe creato un centro di artisti esuli che arrivavano da tutta Europa. Tra di loro, il ballerino e scenografo Leonid Fjodorovich Myasin, noto come Massine, che acquisterà l’isola de Li Galli, davanti a Positano, e il grande danzatore Njins. Poco dopo l’avvento del fascimo, Seménov si sarebbe iscritto alla sezione stranieri del Pnf coltivando amichevoli rapporti con Edda e Galeazzo Ciano e divenendo un informatore dell’Ovra.
Tra gli amici russi della famiglia Amendola, c’era il dottor Wigdorcick, ebreo emigrato, dentista con studio a Napoli e a Capri, padre di due figli, Frida e Giacomo, detto Sacha. Socio del circolo canottieri Napoli, Sacha era un ottimo nuotatore e aveva anche compiuto una traversata Capri-Napoli. Condivideva le idee politiche del giovane Amendola, che già al 1929 faceva parte del Pci clandestino, e finirà nel 1933 in una retata di comunisti che si erano recati al porto di Napoli per salutare l’amico Giorgio, condannato al confino sull’isola di Ponza per le sue attività anti-fasciste. L’anno dopo, nel 1934, un’informativa della Polizia politica del 9 giugno susciterà allarme rosso a Roma: «A Capri esisterebbe ed agirebbe lndisturbato un gruppo di comunisti tedeschi, i quali manterrebbero anche dei rapporti con comunisti italiani. Si dice che diversi comunisti tedeschi si siano fissati pure a Positano, in Provincia di Salerno. Vennero fatte indagini accuratissime, che investirono soprattutto i sudditi tedeschi residenti sull’Isola, ma non si trovò alcunché di allarmante e la faccenda venne dimenticata in fretta. Poi, nell’estate del 1935, Giacomo Widgorczyk e Attilio Bowinkel, di famiglia tedesca, figlio del proprietario dell’omonima libreria antiquaria che aprirà in seguito in via Camerelle, saranno arrestati con l’accusa di avere organizzato una specie di ufficio postale per i corrispondenza tra comunisti e risulteranno entrambi molto legati a Eugenio Reale, esponente di punta del comunismo napoletano, poi stretto collaboratore di Palmiro Togliatti al ritorno di questi in Italia.
Nel primo dopoguerra, però, la maggior parte degli esuli russi rispondeva allo stereotipo dell’esule aristocratico e un po’ svagato che aveva ormai invaso tutta l’Europa, gente con le mani bucate, abituata a vivere la grande, che per campare vendeva i gioielli di famiglia ma che ben presto era costretta a inventarsi un mestiere per tirare avanti. Anche a Capri non mancavano principesse che si erano improvvisate venditrici di oggetti folkloristici russi e trouvailles di ogni genere, come Elisabeth Sayn Wittgenstein e Olga de Tchélistcheff. Ma facevano pochi affari visto che erano solite dire ai clienti di pagare quando veniva loro comodo. C’erano nobildonne che si arrangiavano a cucire vestiti come Olimpia Riola, detta Lica, famosa per i suoi capelli rossi e gli occhi verdi, amata e desiderata appassionatamente, e a quanto se ne sa invano, da Edwin Cerio. C’era chi smerciava marmellate fatte in casa all’uso russo, con la frutta intera non schiacciata, chi tricotava a maglia e chi raccoglieva scatole vuote di stagno per rivenderle a peso per poche lire. Un generale faceva il cuoco in una pensione. Una giovane coppia con bambini aveva aperto un ristorante, ma quando si voleva pranzare da loro non era raro trovare sulla porta un cartello in cui era scritto che erano andati al mare e che sarebbero tornati per l’ora del tè.

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3 Commenti
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Francesco Santa Maria
9 Gennaio 2019 11:47

Leggo sempre La lampadina con attenzione ed un grande piacere.
Complimenti ed Augùri!

Lucilla
9 Gennaio 2019 0:42

Davvero molto interessante, un affresco vivido di un periodo particolare in un luogo specialissimo.

Mireille Hanna
7 Gennaio 2019 20:46

Grazie per quest’articolo molto interessante. Molte cose che non sapevo. Certo che non portevano scegliere di meglio che Capri e Positano!